Chuck Palahniuk
Fightclub
Mondadori
9,00 euro
“La prima
regola del fightclub è che non si parla del fightclub.
La seconda
regola del fightclub è che non si parla del fight club.
La terza regola
è due uomini per combattimento.
Un
combattimento alla volta.
Si combatte
senza camicia e senza scarpe.
Il
combattimento dura per il tempo che decidono loro e quando uno dice basta, o
non reagisce più, il combattimento è finito.
E la settima
regola del fightclub è che se questa è la vostra prima sera al fightclub,
dovete combattere.”
ATTENZIONE STO
PER VIOLARE LE PRIME DUE REGOLE DEL FIGHTCLUB!
Era da molto
tempo che desideravo leggere qualcosa di Palahniuk e, da molto di più, che
desideravo leggere questo libro. Da quando avevo visto il film di David Fincher.
Andai al cinema
per vedere Edward Norton un attore che trovavo e trovo eccezionale, il fatto
che nel ruolo di Tyler ci fosse Brad Pitt era valore aggiunto, e che Marla
fosse Helena Bonhan Carter una chicca.
Devo dire che il film è stupendo e, dal
punto di vista della trama, forse addirittura superiore al libro. L’attrice
protagonista mostra quel lato folle che riprenderà nel personaggio di Bellatrix
di Harry Potter, Brad Pitt dimostra di non avere solo un bel faccino e Edward,
beh, è superbo e sublime. Il viso di un folle nella mia testa ha il suo viso.
Scusate la
divagazione e torniamo al libro.
La storia nel
libro è ingarbugliata, ridondante, ripetitiva; scritta in uno stile che mi ha
conquistata. Il modo di narrare segue l’andamento dei pensieri della voce
narrate ed è ripetitivo. Io adoro le ripetizioni, perché sono il modo giusto di
scrivere i pensieri umani. È una sciocchezza parlare di introspezione e cercare
sinonimi. No, è sbagliato, non è così che pensiamo. Rimuginiamo mille volte la
stessa frase, le stesse parole pronunciate da chi ci vuole ferire, da chi
ammiriamo.
Lo sconosciuto
protagonista ripete all’infinito le parole di Tyler Durden, il suo amicissimo,
rielabora e decostruisce i significati di quelle parole in un’azione
introspettiva degna della miglior psicanalisi.
Se nel film lo
spot era “Combatti e scopri chi sei” nel libro essere pestato a sangue
(prenderle, non darle, badate bene!) è quello che ti permette di essere te
stesso. Non il tuo nome e il tuo lavoro ma proprio tu, carne e sangue e
pensiero.
Un romanzo con
più piani di lettura in cui, sebbene ci sia spargimento di litri di sangue, non
c’è compiacimento per il dolore, lo si percepisce appena. Tutto ha un motivo,
uno scopo. Le elucubrazioni mentali di questo viaggiatore perfettivo, che
giustifica l’imperfezione delle autovetture, sono il frutto della sua
educazione. Seguire strettamente le regole. Collezionare e riempire il vuoto di
oggetti, finché le cose che possiedi possiedono te.
La libertà può
avvenire solo tramite la distruzione. Degli oggetti, del lavoro, ma soprattutto
di se stessi e della apparenze.
Il nuovo viso d’angelo
che entra nel fightclub è suo, lo deve annientare, dice a un certo punto il
protagonista. E questo ragazzo con gli occhi tumefatti e il viso non più d’angelo,
dopo averne prese quante mai in una vita, sarà il primo del progetto caos: la
prima scimmia spaziale.
Un esercito di
discepoli di Tyler Durden che sono andati al fightclub perché avevano paura di
qualcosa e ogni combattimento avevano sempre meno paura. Finchè alla fine non
hanno più paura di niente. Ripetono come mantra le parole di Tyler. Tyler il
Robin Hood della sofisticazione alimentare (e per decenza non dirò i dettagli
delle sue sofisticazioni), Tyler il proiezionista creativo che destabilizzava
gli spettatori inserendo fotogrammi hard in film Disney, un nano secondo di
immagine che il nostro cervello registra e non capisce.
Destrutturare
la società, annientarla, per ricavare qualcosa di meglio dal mondo.
Per distruggere
intende letteralmente spazzare via, con bombe e fuoco. Nel romanzo ci sono
indicazioni a profusione di sistemi con cui realizzare esplosivo.
Il saponificio
richiederebbe tutto un discorso a sé, ma un saponificio mandato avanti da
uomini vestiti in nero, rasati, mi ha fatto venire in mente i campi di
concentramento…
Il protagonista
e tutti gli altri uomini che hanno bisogno di un immagine maschile forte di
riferimento e che la trovano in Tyler sono una metafora dell’analisi
antropologica fatta per i nati degli anni Ottanta nei ghetti americani. Ragazzi
cresciuti da madri e nonne, perché i padri erano morti o in galera. Giovani
incapaci di avere un proprio esempio di uomo e bisognosi di avere qualcuno a
cui guardare.
Nel libro la
parabola distruttiva avvolge il protagonista finché anche lui scoprirà che “uccidi
sempre ciò che ami” e che è vero anche il contrario.
Non svelo il
colpo di scena finale (unico rimpianto per avere prima visto il film) che
rivela molto della storia e rende la conclusione del romanzo ancora più
angosciosa.
In conclusione,
più che la trama, ho apprezzato lo stile narrativo, assolutamente fuori dagli
schemi e, secondo alcuni, pure scorretto. Credo che per scrivere un libro del
genere l’autore abbia perso qualche anno di vita, tanto è intenso e
coinvolgente.
Questo non vuol
dire che io condivida le idee che sostiene, anzi, tutt’altro, eppure ne ammiro
la capacità di analisi e di descrizione, la mancanza di paura nell’affermare
verità scomode, l’assoluto anticonformismo narrativo.
Tanto di
cappello a Chuck Palaniuk per il suo romanzo d’esordio, la sua fama è
completamente meritata.