Le cronache di Gaia

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domenica 26 febbraio 2012

Fightclub, commento



Chuck Palahniuk
Fightclub
Mondadori
9,00 euro



“La prima regola del fightclub è che non si parla del fightclub.
La seconda regola del fightclub è che non si parla del fight club.
La terza regola è due uomini per combattimento.
Un combattimento alla volta.
Si combatte senza camicia e senza scarpe.
Il combattimento dura per il tempo che decidono loro e quando uno dice basta, o non reagisce più, il combattimento è finito.
E la settima regola del fightclub è che se questa è la vostra prima sera al fightclub, dovete combattere.”

ATTENZIONE STO PER VIOLARE LE PRIME DUE REGOLE DEL FIGHTCLUB!

Era da molto tempo che desideravo leggere qualcosa di Palahniuk e, da molto di più, che desideravo leggere questo libro. Da quando avevo visto il film di David Fincher.


Andai al cinema per vedere Edward Norton un attore che trovavo e trovo eccezionale, il fatto che nel ruolo di Tyler ci fosse Brad Pitt era valore aggiunto, e che Marla fosse Helena Bonhan Carter una chicca. 


Devo dire che il film è stupendo e, dal punto di vista della trama, forse addirittura superiore al libro. L’attrice protagonista mostra quel lato folle che riprenderà nel personaggio di Bellatrix di Harry Potter, Brad Pitt dimostra di non avere solo un bel faccino e Edward, beh, è superbo e sublime. Il viso di un folle nella mia testa ha il suo viso.


Scusate la divagazione e torniamo al libro.

La storia nel libro è ingarbugliata, ridondante, ripetitiva; scritta in uno stile che mi ha conquistata. Il modo di narrare segue l’andamento dei pensieri della voce narrate ed è ripetitivo. Io adoro le ripetizioni, perché sono il modo giusto di scrivere i pensieri umani. È una sciocchezza parlare di introspezione e cercare sinonimi. No, è sbagliato, non è così che pensiamo. Rimuginiamo mille volte la stessa frase, le stesse parole pronunciate da chi ci vuole ferire, da chi ammiriamo.
Lo sconosciuto protagonista ripete all’infinito le parole di Tyler Durden, il suo amicissimo, rielabora e decostruisce i significati di quelle parole in un’azione introspettiva degna della miglior psicanalisi.
Se nel film lo spot era “Combatti e scopri chi sei” nel libro essere pestato a sangue (prenderle, non darle, badate bene!) è quello che ti permette di essere te stesso. Non il tuo nome e il tuo lavoro ma proprio tu, carne e sangue e pensiero.
Un romanzo con più piani di lettura in cui, sebbene ci sia spargimento di litri di sangue, non c’è compiacimento per il dolore, lo si percepisce appena. Tutto ha un motivo, uno scopo. Le elucubrazioni mentali di questo viaggiatore perfettivo, che giustifica l’imperfezione delle autovetture, sono il frutto della sua educazione. Seguire strettamente le regole. Collezionare e riempire il vuoto di oggetti, finché le cose che possiedi possiedono te.
La libertà può avvenire solo tramite la distruzione. Degli oggetti, del lavoro, ma soprattutto di se stessi e della apparenze.
Il nuovo viso d’angelo che entra nel fightclub è suo, lo deve annientare, dice a un certo punto il protagonista. E questo ragazzo con gli occhi tumefatti e il viso non più d’angelo, dopo averne prese quante mai in una vita, sarà il primo del progetto caos: la prima scimmia spaziale.
Un esercito di discepoli di Tyler Durden che sono andati al fightclub perché avevano paura di qualcosa e ogni combattimento avevano sempre meno paura. Finchè alla fine non hanno più paura di niente. Ripetono come mantra le parole di Tyler. Tyler il Robin Hood della sofisticazione alimentare (e per decenza non dirò i dettagli delle sue sofisticazioni), Tyler il proiezionista creativo che destabilizzava gli spettatori inserendo fotogrammi hard in film Disney, un nano secondo di immagine che il nostro cervello registra e non capisce.
Destrutturare la società, annientarla, per ricavare qualcosa di meglio dal mondo.
Per distruggere intende letteralmente spazzare via, con bombe e fuoco. Nel romanzo ci sono indicazioni a profusione di sistemi con cui realizzare esplosivo.
Il saponificio richiederebbe tutto un discorso a sé, ma un saponificio mandato avanti da uomini vestiti in nero, rasati, mi ha fatto venire in mente i campi di concentramento…
Il protagonista e tutti gli altri uomini che hanno bisogno di un immagine maschile forte di riferimento e che la trovano in Tyler sono una metafora dell’analisi antropologica fatta per i nati degli anni Ottanta nei ghetti americani. Ragazzi cresciuti da madri e nonne, perché i padri erano morti o in galera. Giovani incapaci di avere un proprio esempio di uomo e bisognosi di avere qualcuno a cui guardare.
Nel libro la parabola distruttiva avvolge il protagonista finché anche lui scoprirà che “uccidi sempre ciò che ami” e che è vero anche il contrario.
Non svelo il colpo di scena finale (unico rimpianto per avere prima visto il film) che rivela molto della storia e rende la conclusione del romanzo ancora più angosciosa.
In conclusione, più che la trama, ho apprezzato lo stile narrativo, assolutamente fuori dagli schemi e, secondo alcuni, pure scorretto. Credo che per scrivere un libro del genere l’autore abbia perso qualche anno di vita, tanto è intenso e coinvolgente.
Questo non vuol dire che io condivida le idee che sostiene, anzi, tutt’altro, eppure ne ammiro la capacità di analisi e di descrizione, la mancanza di paura nell’affermare verità scomode, l’assoluto anticonformismo narrativo.
Tanto di cappello a Chuck Palaniuk per il suo romanzo d’esordio, la sua fama è completamente meritata.