Le cronache di Gaia

Cronache di Gaia.

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venerdì 6 maggio 2016

Il mistero dodici sedie - un racconto del Terremoto 40 dopo

Due anni fa in occasione dell'uscita dell'antologia Ewwa dedicata alla Rai avevo scritto un racconto.
Poi non me la sono sentita di condividerlo con altri, così è rimasto nel portatile in attesa.
Oggi è il giorno giusto. Sono passati 40 anni da allora.

IL MISTERO DELLE DODICI SEDIE

Il pancione di Ivana entra per primo, seguito da Elio che ci sorride e ci saluta tutti, iniziando a parlare con quella cadenza divertente che mi piace tanto.
La mamma sta finendo di lavare dei panni in bagno, li saluta appena e torna a tuffarsi nelle sue faccende; vuole finire presto per stare con gli ospiti.
Mio papà li fa sedere con noi sul divano.
«Ci avete fatto davvero una bella sorpresa!»
So che a papà mancano i suoi vecchi amici, noi abitiamo lontano e con i suoi turni di lavoro non riesce a trovarsi con loro la domenica.
«Manca poco» dice Elio, mettendo la mano sulla pancia enorme di Ivana.
«Dovrebbe nascere tra una settimana, se tutto va bene.»
«Una bambina!» urla mia madre.
L’appartamento è piccolo, appena 70 mq e, anche se noi siamo seduti sul divano in salotto, lei ci sente bene e chiacchiera con noi.
Sono in pigiama e guardo la televisione con i grandi. Sono contentissima, visto che abbiamo visite posso restare alzata dopo il carosello e fermarmi con loro. Mi sento grande anche io!
Ivana mi fa i complimenti per i codini, io rido e le chiedo se posso toccarle la pancia.
Papà ed Elio guardano un film per i grandi e non capisco proprio tutto quello che dicono le persone della storia. Non importa è bello essere qui tutti assieme. Anche la mamma ha finito ed è venuta a sedersi vicino a me.
Dopo però si alza, va a prendere qualcosa per gli ospiti.
Ivana vuole alzarsi, ma mio papà le dice di stare comoda.
«Con tutto quel peso, dove vuoi andare? » le chiede, ridendo con Elio.
Deve pesare davvero tanto se non ce la fa nemmeno ad alzarsi!
Sono accoccolata sulla pancia di Ivana, voglio sentire anche io questa bambina piccola, nascosta, ma che dà calci forti.
Papà ha appena messo il vassoio sul tavolo grande, quello tondo al centro della sala, quando un rumore fortissimo mi fa alzare la testa.
«Che succede?»
Elio smette di guardare la tv e si gira verso mio padre.
«Il lampadario!»
La sua voce è tutta differente da quella allegra che conosco.
Ma è quello che dice mia madre a far impazzire tutti i grandi.
«Il terremoto!»
«Ciapa a tosa! Via, via!» dice Elio.
Non ha ancora smesso di dirlo che sento le braccia di Ivana attorno a me, mi ha presa e si è sollevata senza sforzo dal divano.
In un attimo siamo già fuori dall'appartamento, sul pianerottolo.
Scende le scale a una velocità così grande che mi sembra di volare fuori dal palazzo.
Non capisco, ci sono tutti i miei vicini che corrono in strada e sono tutti strani…
La signora Maria è in vestaglia, l’Antonietta addirittura in camicia da notte!
Che sta succedendo?
Dove sono mamma e papà?
Ivana ha il fiatone, mi guardo intorno in cerca della mamma, ho paura e anche tutti i grandi intorno a me sono pieni di paura.
Vedo papà portare fuori la mamma tenendola per mano, camminano in modo strano, o è il palazzo che si muove?
Le dita di Ivana mi stringono fortissimo, mentre Elio guarda in su.
Tutti i grandi guardano in su.
Mamma mi prende in braccio, mentre Elio abbraccia sua moglie.
Papà ci stringe tutte e due mentre un altro rumore forte fa gridare l’Antonietta.
Restiamo lì tutti quanti, a guardare quel palazzo per molto tempo.
Per fortuna oggi era caldo e anche se è notte e siamo mezzi svestiti, non si sta male.
I grandi hanno tutti l’aria persa, non ho mai visto papà così serio. Noi piccoli abbiamo già iniziato a giocare.
«Via da lì, distante dalla casa» urla Ida, quella del secondo piano, a Enrico che voleva prendere il pallone che aveva lasciato sotto il portico di casa sua, che è proprio di fronte al palazzo.
Ci sediamo per terra, tra mia mamma e Ivana che si tocca la pancia e un po’ piange e un po’ ride perché quella bambina, come dice mamma, le dà un sacco di calci. Elio e Ivana restano con noi per qualche tempo ma alla fine montano in macchina e gli faccio ciao ciao con la mano mentre se ne vanno. Resto in braccio alla mamma che seduta sul marciapiede mi stringe forte, poi mi addormento.


La luce del mattino ci trova tutti assonnati, i grandi non li avevo mai visti così. Mio papà tocca una crepa sul muro del palazzo, proprio vicino al portone d’ingresso; alla fine uno dopo l’altro i miei vicini salgono in casa.
Nell’appartamento ci sono tante cose per terra, la mamma brontola un po’, ma sembra contenta. Io vado a dormire e quando mi alzo papà non c’è, il suo turno in ospedale iniziava alle due del pomeriggio e lui è già uscito.
Mamma mi prende in braccio e ci mettiamo davanti alla televisione.
«Maria Santissima» dice con una voce così strana.
Mostrano persone in mezzo ai sassi, hanno delle divise e scavano, la voce della tv dice che ci sono stati tanti morti.
Un vecchietto con gli occhiali neri va a vedere tutto quel disastro e mia madre singhiozza.
Alzo la testa e vedo che piange.
«Mamma?»
«Stsss, stsss»
«Che è successo a quelle persone?»
«C’è stato il terremoto e le case sono crollate.»
«E noi? »
«Da noi no, per fortuna»
La sera papà torna tardi, ma lo aspettiamo tutte e due sveglie, siamo fuori nel giardino del condominio assieme agli altri.
«In Friuli che disastro, quanti morti!» dice Antonietta alla Ida.
«Per televisione hanno fatto vedere Gemona, poretti» risponde lei, poi si volta verso mia madre.
«No sta mostrarghe a teevision a la tosa, se no a se impresiona» dice a mia madre.
«Perché non dovrebbe guardare la televisione? È così piccola, non si ricorderà di niente» la tranquillizza e mi accarezza la testa mentre guardiamo in alto, verso le finestre del terzo piano, dove c’è il nostro appartamento.


Il mio primo ricordo è la soddisfazione di fare qualcosa di straordinario come guardare un programma alla televisione oltre l’orario consentito ai bambini. Sono felice, tenuta in braccio dalle persone che mi amano. Una gioia piena ma breve, perché tutto finisce con un boato. Il terrore si impossessa di chi ho sempre pensato essere invincibile e una donna grossa, pesante e impacciata, che aveva una bambina dentro la pancia, mi afferra e mi fa volare giù per le sei rampe di scale del mio palazzo.

Erano le 21.00 del 6 maggio 1976 e nella prima rete trasmettevano "Il mistero delle dodici sedie". Non ho mai saputo come sia finito quel film.




mercoledì 23 dicembre 2015

Di corsa

- 2 giorni a Natale!
Il racconto che vi propongo oggi è sempre all'interno di tre prima di Natale.
Dopo Le statuine di Davide, che potete leggere qui vi propongo "Di corsa".
Si tratta del mio primo esperimento di fantascienza.
Anche qui c'è una lunga attesa, un dono e alla fine la luce.
Buona antivigilia!






Di corsa


Correre.
Sono sette anni che attende di correre, sente la gioia riempirgli l’animo e si guarda quei piedi, che sono nuovi e antichi, toccare terra con ritmo ed eleganza.
La strada è deserta, è la mattina di Natale e si è alzato prestissimo per non incontrare nessuno, vuole che la sua corsa sia solitaria, deve poter assaporare ogni istante di quel momento, vuole percepire solo se stesso e il mondo, senza incontrare uno sguardo, senza scorgere anima viva.
Le lunghe falcate si susseguono regolari mostrando una tecnica sapiente di corsa. Non è un novellino e anche se è passato molto tempo non ha dimenticato e le gambe si muovono come se non avesse fatto altro ogni giorno della sua vita, come se non fosse trascorso che un battito di ciglia da allora. 
Ma gli manca l’allenamento e i muscoli, nuovi e antichi, gridano, il cuore inizia a pompare il sangue e le sue orecchie sono martellate dai battiti. Le scarpe bianche toccano leggere l’asfalto mentre un metro dopo l’altro percorre la via deserta i cui lati sono decorati da mucchi di neve sporca e dalle luci stanche degli alberi di Natale.
La sua mente è vuota, non sta pensando a nulla, ascolta il respiro e il battito del cuore concentrato su di esso, svuotando la testa da ogni angoscia. Assapora la sensazione di libertà e potenza che ogni parte del suo corpo sembra volergli trasmettere. I lampioni ancora accesi proiettano la sua ombra, leggera dietro di lui, mentre le prime gocce di sudore si formano sulla fronte. L’aria entra fresca dentro le narici e lo aiuta a sentirsi vivo.
Un’auto con i suoi fari lo illumina, è la prima che incontra da quando è uscito di casa ma non volge lo sguardo per vedere chi guida. Teme di incrociare il volto di un conoscente, di un vicino, di qualcuno che potrebbe riconoscerlo. Pensa che se lui non vede loro, gli altri non vedranno lui. Ma non è così, lo sa benissimo, ma sono anni ormai che si comporta in questo modo ed è quasi un’abitudine. Chi lo conosce lo sa e mai come in quel momento gli torna utile. Non può fermarsi a parlare; ha una mèta che lo aspetta.
Vuole arrivare presto, vuole concludere quello che è stato iniziato da altri, ma che solo lui può concludere perché non c’è nessuno che possa mettere la parola fine a tutto quel pasticcio se non lui.
Il pensiero di non riuscire, di fallire si affaccia alla sua mente e un malessere lo avvolge; l’ossigeno pare non arrivare più ai suoi polmoni così, contro ogni avvertenza, contro ogni aspettativa, si ferma e posa le mani sulle ginocchia.
Piegato, ansante, fissa ancora una volta sbalordito i suoi piedi, chiedendosi come abbia fatto a vivere senza correre. Passano istanti che paiono lunghissimi, la memoria vaga nel passato più recente, in cui la sua immobilità era reale, concreta, solida come delle sbarre che lo tenevano prigioniero. Si guarda intorno e le macchie grigie della neve ammucchiata  vicino all’incrocio gli sembrano la cosa più bella che abbia mai visto. Non sopporta più il candido colore bianco, lo trova falso e doloroso mentre ripensa a quello che è stato.
Il bianco del soffitto, il bianco delle lenzuola, il bianco assoluto. L’assenza di qualsiasi colore dalla sua vita, l’annullamento di sé.
Perché il vuoto non è il nero, il vuoto è il bianco degli occhi della pietà della gente, che non lo fissava nelle pupille, che sfuggiva il suo sguardo. Il bianco delle infermiere che si avvicinavano con finti sorrisi.
Il bianco dei cuscini a cui doveva appoggiarsi.
Il bianco del cielo di quel giorno di febbraio in cui il mondo aveva perso tutti i suoi colori.
Avevano detto che era stato un miracolo se si era salvato, che persino il conducente dell’auto credeva di averlo ucciso. Ricordava appena il volto di quel povero ubriaco che l’aveva travolto.
Era successo di mattina, una mattina fredda e tanto simile a quella, anche allora stava correndo, ma non era Natale e nessuna luce colorata brillava per lui se non il lampeggiante dell’ambulanza.
Avrebbe tanto voluto ricordare i pensieri che precedettero l’impatto, le sensazioni, persino il dolore, in questo modo sarebbe riuscito a dare un senso a tutto quello che aveva patito ma non ricordava niente, solo il bianco del cielo di febbraio.
Alcuni hanno esperienze di non morte, vedono la luce, percepiscono essenze, a lui non era accaduto nulla di tutto questo. Si era svegliato senza sapere quando si fosse addormentato, aveva creduto di essere in un sogno, le sue sensazioni corporee gli erano estranee. Gli pareva di essere rinchiuso in una cassa e di avere solo due spiragli per gli occhi da cui osservare il mondo.
Il coma era durato quasi un anno, aveva perso dodici mesi senza accorgersene; il passato, la sua vita, chi era stato lo apprese un pochino ogni giorno. Ricominciò a conoscere se stesso. 
La storia dell’incidente gliela raccontò Iris, quando ancora si parlavano, quando ancora pensava che sarebbe rimasta.
Iris aveva realmente confuso la speranza e la realtà, si era illusa, aveva sperato e sofferto, quasi più di lui. Alla fine la delusione era stata talmente grande che non aveva resistito.
Come poteva darle torto?
Anche lui avrebbe voluto fuggire da se stesso, se avesse potuto. Molti avevano criticato Iris per averlo abbandonato, ma in cuor suo sapeva benissimo che era stato lui a lasciarla. L’aveva esclusa dal suo mondo, dal suo sentire e dal suo dolore perché sapeva che, per quanto si sforzasse, lei non poteva capire quello che gli era successo. Non poteva più condividere nulla con quella ragazza, era inutile e doloroso per entrambi vedersi e starsi accanto. Era stato lui a dirle di lasciarlo, di non andare più a trovarlo.
Lei aveva opposto resistenza ma, alla fine, non si era più presentata sulla porta della sua stanza. 
Per fortuna.
Questo era il passato, il tempo è trascorso e ora può correre. 
L’uomo scuote la testa, si raddrizza e, un passo dopo l’altro, si avvicina alla mèta; al ponte. 
Una paura ben nota ma estranea si impossessa delle sue gambe, comincia già a percepire un mormorio lontano, una voce che chiama il suo nome. I piedi, nuovi e antichi, sembra vogliano rifiutarsi di arrivare al ponte, ma lui insiste. 
Ora cammina, lo sforzo è grande, i muscoli oppongono una resistenza di cui non si stupisce, ma che lo affatica. Il momento sta per arrivare, mancano pochi metri, eppure non sa ancora se ce la farà. Si chiede se avrà veramente il coraggio di fare quello che ha fatto lei.
L’essere che vive in quelle gambe, la donna che ne aveva una parte, conosceva quel ponte, e lo riconosce anche ora, lo teme e lo desidera. Un brivido di consapevolezza lo distrae, lei è combattuta e lo lascia fare. 
In pochi rapidi passi è arrivato.
La voce non tace mai, la sente anche ora. Una cantilena di pianto inconsolabile, un singhiozzare sommesso e straziante.
Un “effetto collaterale” delle nuove generazioni di impianti neurali che aiutano le persone come lui che hanno subito danni spinali. Così l’avevano definito: memoria sensoriale periferica.
Sorride tra sé mentre ci pensa. 
Dicevano che sarebbe passato in pochi giorni e lui aveva creduto ai medici. 
Ripensò a quel giorno in cui era stato selezionato per essere il primo a cui impiantare reti neurali di altri esseri viventi.
Era novembre, lo ricordava bene perché dal suo letto fissava le sagome scheletriche degli alberi del giardino dell’istituto in cui la sua famiglia l’aveva ricoverato.
Sua madre aveva tanto insistito per farlo trasferire in quel luogo lontano. 
Aveva fatto ricerche, non si era mai data per vinta e, a differenza di Iris, lui non era riuscito ad allontanarla a convincerla a lasciarlo. Sua madre aveva cercato tra i migliori istituti al mondo e tutte le sue informazioni l’avevano portata in quel luogo di speranza. Le avevano assicurato che solo lì suo figlio avrebbe potuto tornare a usare gli arti inferiori.
Quando ne parlarono per la prima volta erano già passati cinque anni dall’incidente e ormai si era rassegnato. Dopo avere perso le gambe, Iris e la sua vita, aveva faticosamente ricostruito un pezzo alla volta quello che restava di lui e la proposta della madre, di ricominciare a sperare, lo aveva terrorizzato.
Nadia però non aveva mollato e per tutta l’estate aveva tentato di convincere il figlio, promettendogli che quella sarebbe stata la sua ultima richiesta.
Non aveva potuto dirle di no e in ottobre era stato accolto nella clinica tedesca in cui un team di medici lo avevano analizzato dalla testa ai piedi. Ma soprattutto la testa, con Tac e Risonanze, con visite psicologiche, con indagini che l’avevano lasciato sempre più perplesso e arrabbiato.
Poi, un giorno di novembre, uno dei suoi medici, il meno simpatico, il dottor Perrault, quello dagli occhi penetranti, si era seduto accanto a lui.
Aveva un tono di voce dal fortissimo accento francese.
“Marco avremmo una proposta da farle…”  e aveva iniziato a spiegargli il protocollo, ma lui, con il volto rivolto alla finestra, non l’aveva ascoltato. Con caparbietà aveva osservato oltre il vetro l’inutile lotta contro il vento di una foglia, ancora attaccata al ramo nudo dell’albero. Solo quando il vento aveva vinto portandosela via si era reso conto di essere rimasto solo, il medico se n’era andato.
Nei giorni successivi l’uomo era tornato, aveva insistito, sempre più animato, sempre più agitato.
Era la persona giusta per quel protocollo, il paziente che il dottor Perrault e tutto il team della clinica aspettavano con ansia per sperimentare quella nuova procedura.
I rischi erano minimi, dicevano, avrebbero sostituito una parte della sua corteccia celebrale e di midollo spinale con quello di un donatore sano. 
“In fondo che aveva da perdere?”
Glielo dissero molte volte. 
Sì, perché dopo il primo medico ne vennero altri e alla fine pure sua madre si fece avanti.
Fu lei a spronarlo in modo definitivo, convincendolo ancora una volta.
“Perché non vuoi provare? Non sarà doloroso. Se andrà male resterai a letto esattamente come ora. Ma se dovesse andare bene… ci pensi? Marco, se dovesse andare tutto come dicono potresti camminare di nuovo e, chissà, forse, con la giusta fisioterapia, magari potresti tornare a correre ancora.”
Furono quelle parole a fargli accettare l’intervento, si fidò di loro e fu il primo esperimento riuscito del protocollo NSP9.
Anche se il numero nove, posto alla fine della sigla, lo aveva sempre fatto impensierire. 
Che ne era stato dei primi otto?
Ma ci aveva riflettuto poco, ormai si fidava ciecamente di loro. 
Come poteva non credere ai dottori, agli scienziati che gli avevano promesso e regalato il dono delle sue stesse gambe?
Li aveva ringraziati, li aveva benedetti tutti quanti: medici e infermieri. 
Avevano realizzato quello che solo a Dio era concesso: gli avevano restituito la vita.
Come poteva non credere alle loro parole? Il protocollo era pienamente riuscito e senza effetti collaterali gravi, dissero.
Non era così, la voce della donna riecheggia in lui ogni notte, entrava nei suoi sogni e si impossessava del suo essere invadendolo con delle sensazioni che non appartenevano a lui. 
La prima volta che aveva udito quella voce femminile non era solo, era con Tony, il suo fisioterapista. Si trovava nella palestra e con le mani strette attorno alle sbarre, trascinava un piede dopo l’altro, incitato dai continui incoraggiamenti dell’uomo robusto che gli era accanto. 
“È inutile, tutto inutile” aveva sussurrato la donna.
Marco aveva girato la testa verso la porta, per capire chi fosse entrato, ma erano soli, lui e Tony; nessun altro era presente nella piccola palestra.
Immaginò di essersela sognata, non ne fece parola con nessuno, né con i medici, né con sua madre e non ci pensò più per alcuni giorni.
La seconda volta invece capitò in piscina.
Era seduto sul fondo, come faceva spesso. Lasciava che piccole bolle di ossigeno uscissero dalla sua bocca e le guardava salire verso l’alto, incantato dal loro luccichio.
“Lasciami andare, vattene!” aveva gridato la donna facendolo trasalire.
Con una spinta era riemerso subito, sconvolto e molto preoccupato. Stava forse impazzendo?
Il giorno dopo ne aveva parlato con la psicologa che aveva seguito tutto il suo percorso fin dall’inizio del protocollo. La donna  aveva corrugato la fronte e aveva preteso maggiori dettagli, ma mentre Marco parlava si era accorto di come la donne fosse visibilmente a disagio e non paresse sorpresa bensì dispiaciuta.
Era stata poi la volta dell’incontro con l’intera equipe medica che l’aveva operato.
“Il protocollo l’aveva ipotizzato, si tratta di una situazione temporanea” l’avevano rassicurato i medici.
I risultati sui test fisici erano perfetti e i successi nel campo della riabilitazione erano così evidenti che lui non dubitò per un attimo che quel piccolo inconveniente sarebbe sparito presto. Era stato dimesso con successo e di certo grazie a lui i suoi dottori avevano provato una delle tecniche più innovative dal punto di vista dei trapianti. Purtroppo era passato quasi un anno e la voce della donna era forte e chiara, ma lui si fidava dei suoi dottori e credeva veramente che prima o poi tutto si sarebbe risolto.
La riabilitazione era terminata e dopo un breve periodo a casa con la madre, era tornato a casa sua.
Non aveva mai voluto vendere quel luogo, tornarci era stato come svegliarsi da un incubo. Un giorno dopo l’altro si era riappropriato della sua vita e il desiderio di corre per strada era divenuto fortissimo.
Pareva tutto perfetto, eppure non era così.
La voce della donna riecheggia in lui ogni notte e chiede di morire, voleva morire. 
Ma che persona era mai stata la sua donatrice di midollo? 
Doveva essere giovane, almeno quanto lui, doveva essere infelice, la sua tristezza la percepiva bene, gli attanagliava il cuore da mesi, lo soffocava. L’aveva cercata, aveva indagato, voleva sapere chi era. All’inizio, per ringraziare la sua famiglia, poi semplicemente per farla tacere, per mettere fine alla sofferenza.
Le informazioni che aveva raccolto erano poche, di lei non conosceva nemmeno il nome, sapeva solo quello che la voce dentro la sua testa gli raccontava tra i lamenti. Nominava spesso due persone: un maschio e una femmina. Di loro due sentiva terribilmente la mancanza ed era straziata dal dolore di non poterli più incontrare. Doveva averli amati moltissimo e c’era un tono, un’inflessione nel modo in cui li chiamava che gli facevano tornare alla mente sua madre. Che fossero i suoi figli? Di certo erano stati loro a lasciarla per prima a gettarla nella disperazione.
Ogni notte Marco sentiva tutta la sofferenza che la donna provava e la viveva come fosse sua. 
Tutto il dolore della sconosciuta lo stava straziando.
Aveva chiesto più volte un farmaco, un aiuto e i suoi medici lo avevano subito accontentato, preoccupati che lui diffondesse la gravità di questo “piccolo effetto collaterale”. 
Solo con i sonniferi ormai riusciva a riposare, eppure non era più padrone della sua mente e dei suoi desideri. 

Ora è stanco, non sopporta più quella vita, quella voce, quella disperazione, ma non vuole tornare fermo.
Gettandosi nel vuoto annullerà l’esperimento, tornerà a essere informe, non potrà più correre. Ma almeno morirà per sempre, non un giorno alla volta.
Si rivede immobile, con gli occhi che vagano in cerca di una mosca. Persino un insetto così piccolo poteva muoversi libero, mentre lui era fermo, come un sasso. Almeno le piante sono mosse dal vento, lui era troppo pensante persino per farsi portare dal vento.
No, non vuole più essere prigioniero di se stesso, del proprio corpo. Non vuole più sentirsi legato e impotente a osservare la vita che gli passa accanto.
Stringe forte i pugni chiusi, le unghie gli fanno male nella carne, ed è così felice che quel dolore lo riporti alla realtà. Si guarda attorno: quell’istante è il momento preciso in cui il buio perde la battaglia contro la luce. 
I primi raggi di sole mostrano il ponte, non è particolarmente diverso dagli altri, ma è proprio quello che cercava; lui sa chiaramente che lo deve fare.
Alla fine ha deciso di ascoltare le sue nuove e antiche gambe ed è arrivato lì, dove tutto era finito per lei.
Una voce dentro la sua mente grida aiuto; la sente supplicare. 
Chi avrebbe detto che con le terminazioni nervose delle gambe, sarebbero arrivati anche i ricordi? Gli ultimi momenti di esistenza dell’essere umano a cui in precedenza erano appartenute?
Sono notti che vede quel ponte: è da lì che la donna si è gettata.
Se si concentra può percepire il ticchettio della pioggia sulla testa, sulla testa della donna. Era quasi notte, le luci dei fari delle auto erano riflesse mille volte dall’acqua che cadeva scrosciante. 
Durante alcuni sogni è riuscito persino a percepire il brivido della caduta, l’attimo prima che il freddo, come aghi acuminati, trafiggesse la carne di quella povera ragazza.
Quale coraggio aveva avuto nel gettarsi!
Lui non sa ancora se ne avrà altrettanto, ma ormai è lì, l’avrebbe scoperto presto.
Guarda il ponte e ne è affascinato. Ha una bella linea, è solido e a campata unica, si estende per una trentina di metri, poche auto transitano e in quel momento non c’è nessuno. Gli sembra di avere atteso tutto quel tempo solo per arrivare fino a lì, fino a quel ponte, che permetterà di attraversare finalmente il confine della vita e della morte. Copre velocemente gli ultimi metri che lo separano dalla balaustra e appoggia le mani sul parapetto in cemento e lentamente vi sale. Una volta diritto, in piedi, guarda il vuoto sottostante. L’acqua lo chiama, una quindicina di metri più sotto, scorre forte e lieta, incurante di tutto, di tutti, di lui e di lei. Ha l’impressione di conoscere anche la voce della corrente. Chiude gli occhi.
Chissà se anche lei aveva sentito il richiamo dell’acqua?
Ora non sta pensando alla donna, ora pensa alle sue gambe, nuove e antiche, ai suoi piedi.
Li guarda un’ultima volta e li trova belli. 
Quando era piccolo non avrebbe mai creduto che le sue gambe sarebbero state la fonte di tanto dolore e di tanta gioia. Le corse che faceva con i suoi amici erano scontate, come respirare, giocare a guardia e ladri, a nascondino, a bandiera. 
Esisteva forse un gioco in cui non aveva corso per vincere? No.
Sorride e un velo di malinconia gli scende sul viso. 
Ha aspettato sette anni per poter correre di nuovo; ora ha corso, è felice. Si tratta del più bel regalo di Natale che potesse farsi. Sentirsi di nuovo vivo.
I suoi ultimi ricordi saranno la gioia di avere compiuto un miracolo, di avere beffato la sorte e di avere vinto ma, proprio mentre pensa questo, l’amarezza del gesto che sta per compiere lo frena un secondo. Una parte di lui ha paura, paura del buio, del freddo. Sa già che gli mancheranno il sole, le stelle e il blu del cielo. E correre, ah, quanto gli mancherà correre!
Sentire il vento nei capelli e il calore nel viso, il benessere che si allarga dal cuore a tutto il suo corpo.
Quella corsa è stata un sogno che si è avverato, è grato alla sconosciuta per averlo lasciato solo mentre correva, per avergli permesso di riassaporare una delle emozioni che più lo rendevano felice.
Gli è mancato per così tanto tempo correre che ormai dovrebbe essersi abituato, eppure, anche ora, quando tutto è deciso, quando tutto ormai è inevitabile, una parte di lui vorrebbe correre, tornare a casa, di corsa e dimenticarsi del mondo e di se stesso.
Apre le braccia e così, come vuole la natura, cade. Vorrebbe cadere, deve cadere.
Ma quelle gambe, nuove e antiche, non lo lasciano; i piedi non si muovono, rimangono incollati al parapetto. Poi, prima il destro e dopo il sinistro, si voltano e scendono dal muretto.
Lo stupore lo assale e con esso una gioia immensa; un passo dopo l’altro, l’uomo inizia a correre.
I suoi piedi sono suoi, le sue gambe sono sue, hanno trent’anni come lui e la rete neurale lo sa e tace.
La rete neurale vuole correre, la donna vuole ridere.
Correre, entrambi vogliono solo correre. 
Avverte la sua esultanza e la sente vicina, come mai prima di quel momento. Non ode la sua voce, percepisce direttamente la gioia della corsa. Il cuore che batte dentro il suo cuore, la sensazione di pace, che lei aveva cercato gettandosi dal ponte, ora l’ha trovata correndo, ne è certo.
Ride e la sua risata risuona in lui e gli dà speranza, come poche cose nella sua vita.
Poi, eccola, cristallina, è lei che parla, ma non è il tono lamentoso che ben conosce, è una voce armoniosa e serena.
Si scusa, chiede pazienza, è la sua natura e non la può rinnegare. 
Forse lo porterà ancora sul ponte, forse piangerà ancora di notte, ma lo prega di correre, di portare quelle gambe, nuove e antiche, in giro per le strade. Percorrere leggere il mondo e gioire della corsa come ha appena fatto con la memoria.
Lei si sforzerà di seguirlo, di stargli dietro, ma non gli farà più del male, resterà zitta, in disparte. 
Lei è già caduta, non lo farà più cadere.