Come promesso ecco il mio commento a "Non tutti i bastardi sono di Vienna" di Andrea Molesini, il cui curriculum di narratore è veramente notevole.
Premetto che leggere di fatti che avvennero a pochi chilometri da casa mia, e conoscere tutte le località citate nel romanzo mi ha fatto un effetto stranissimo.
Il romanzo è ambientato nelle colline della riva sinistra del Piave.
La storia inizia nel novembre del 1917, il capitano Korpium, soldato del Kaiser, requisisce Villa Spada e i suoi abitanti si trovano relegati in poche stanze. La piccola storia di una famiglia nella grande storia del nostro paese.
Il giovane Paolo, nato nel 1900, non ha ancora compiuto quei diciotto anni che gli permetteranno di andare in guerra, come gli altri giovani nati un anno prima, il 1899.
Maria Sapda, donna bella, non più giovane per i parametri dell’epoca, sola, la vera signora della Villa tratterà da pari con il soldato tedesco e poi con l’austriaco. Potrà garantire la tranquillità dei suoi familiari.
Nonno Guglielmo Spada, cinico e anticlericale, che sta scrivendo un romanzo nel suo pensatoio e si ritira volentieri dalla concretezza del mondo lasciando alla moglie di origine inglese, Nancy, il compito di gestire l’offensiva domestica contro gli invasori.
Teresa la cuoca granitica, Loretta sua figlia, meno granitica e meno saggia, Renato il custode che è toscano e non parla in dialetto veneto ma sa molte cose sulla guerra e non è per nulla ciò che sembra.
Giulia, rossa, come il fuoco che le scorre nelle vene e macchiata dal suicidio di un innamorato.
Gli abitanti delle Villa, i signori di quelle terre, diventano prigionieri, come i loro contadini, delle angherie e della fame. Si oppongono con sdegno alla crudeltà verso le giovani del paese, verso il furto della campana.
Sostengono gli alleati come possono. Rischiano la vita e scoprono la fine dell’umanità, nel fango e nel sangue della battaglia del solstizio d’estate del 1918.
Il libro è scritto in prima persona con la voce narrante del giovane Paolo che ci mostra quell’ultimo anno della Grande Guerra proprio dal suo fronte. Vi sono pagine meravigliose di umanità e alcune teorie storiografiche ardite che mi hanno messo voglia di riprendere in mano i libri sulla Prima Guerra Mondiale.
C’è la profonda umanità dei personaggi, italiani e non. In particolare il barone Rudolph, decisamente poco adatto a comandare i soldati degli Asburgo nel fango della trincea. Eppure anche lui verrà trasformato dalla guerra e la sua amicizia con Maria non potrà mai continuare, perché se i vincitori possono dimenticare i perdenti no.
L’analisi di Molesini non riesce ad avere la profondità di Irèné Nemirovsky nel descrivere i rapporti tra invasori e occupati, ma riesce comunque a mostrare con chiarezza quale incredibile collante contro le divisioni sociali sia il nemico comune.
“Il barone parlava la mia lingua e quei contadini no, impugnava la forchetta e sollevava il bicchiere come facevo io, e quei contadini no, aveva letto molti libri che avevo letto io, e quei contadini non sapevano leggere, ma in quel momento sentii che la guerra, quella guerra di schifo, aveva messo me e quei contadini da una parte, il barone e i suoi dall’altra. E se in quel momento quei pezzenti avessero potuto metter mano alle forche avrebbero scannato il barone, e non noi, anche se l’astio che covavano per noi aveva più solidi motivi, e attraversava le generazioni.”
L’autore ci mostra come le donne riescano, anche in quella guerra, a portare avanti la vita di ogni giorno e a, letteralmente, raccogliere i pezzi degli uomini e ricostruire la società.
Non sono sicura di essere d’accordo con tutte le teorie presenti in questo romanzo, che di certo merita di essere letto, non solo per la storia, ma anche per la bella lingua usata e per i temi che tocca.
Buonissimo week end a tutti!
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